Il ritorno delle armi nei portafogli “green”
Un tema sempre più controverso scuote la finanza sostenibile: il cosiddetto riarmo ESG. Settori della difesa, un tempo esclusi dai fondi etici, stanno tornando tra gli investimenti ritenuti compatibili con i criteri ambientali, sociali e di governance. La spinta arriva da un contesto geopolitico instabile e dal record della spesa militare mondiale, che nel 2024 ha raggiunto i 2.718 miliardi di dollari (+9,4% in un anno).
La sfida dei gestori
Molti fondi ESG hanno smesso di escludere in blocco la difesa, limitandosi a bandire le armi “controverse” come mine o bombe a grappolo. La logica è chiara: in un mondo segnato da conflitti, la sicurezza viene vista come investimento. Ma questa scelta apre una frattura con i principi stessi della finanza sostenibile. Il regolamento europeo Sfdr stabilisce infatti che un investimento è sostenibile solo se non arreca “danni significativi”.
L’impatto ambientale dimenticato
Il dibattito sul riarmo ESG trascura spesso il peso ambientale del comparto difesa. Dalla produzione alla logistica, l’industria militare è tra le più energivore e inquinanti, ma resta fuori dagli obblighi di rendicontazione climatica. Le emissioni delle forze armate, infatti, non rientrano nei target di trattati come l’Accordo di Parigi.
Gli effetti sono devastanti in caso di guerra: nei primi 18 mesi del conflitto in Ucraina sono state generate 150 milioni di tonnellate di gas serra, equivalenti alle emissioni annue del Belgio.
Una contraddizione irrisolta
La finanza sostenibile rischia così di perdere credibilità: da un lato combatte il cambiamento climatico, dall’altro accoglie investimenti in un settore che produce vittime, devastazioni sociali ed enormi danni ambientali.







