Una svolta obbligata per i fondi

Nel 2021 l’Unione Europea ha introdotto la Sustainable Finance Disclosure Regulation (SFDR), una normativa pensata per portare trasparenza nel mondo della finanza sostenibile. Da quel momento, i fondi di investimento devono dichiarare se e in che modo considerano i criteri ambientali, sociali e di governance (ESG) nelle loro strategie.

Il regolamento distingue tra fondi che non tengono conto degli aspetti ESG, fondi che li promuovono tra le varie caratteristiche dell’investimento, e fondi che invece fanno della sostenibilità il cuore della propria strategia. Nel 2023 sono entrati in vigore standard tecnici più severi, costringendo molte società finanziarie a rivedere le proprie classificazioni e a riorganizzare i portafogli.

I fondi cambiano rotta, ma con effetti parziali

Secondo uno studio della Banca d’Italia, i fondi classificati come “light green”, cioè quelli che promuovono anche aspetti ambientali o sociali, hanno effettivamente ridotto le proprie partecipazioni in aziende ad alto rischio ESG. In particolare, a partire da marzo 2021, questi fondi hanno scelto di disinvestire da imprese considerate più inquinanti, segnando una riduzione del 3,6% rispetto ai fondi che non adottano criteri sostenibili. Si è trattato di un effetto duraturo nel tempo, osservabile anche nei mesi successivi all’entrata in vigore della normativa. Questo spostamento ha avuto anche un impatto positivo sulla reputazione di questi fondi, che hanno visto migliorare il proprio rating di sostenibilità e hanno attratto nuovi capitali.

Il paradosso dei disinvestimenti

Fin qui, il quadro sembrerebbe incoraggiante. Ma i dati raccolti da Banca d’Italia mettono in luce un paradosso: le imprese più inquinanti, colpite dai disinvestimenti, tendono a reagire non migliorando, ma riducendo gli investimenti ambientali. Le società con elevato rischio ESG più esposte a fondi sostenibili hanno registrato un calo nei rendimenti azionari pari al 2,3% nei tre mesi successivi, fino ad arrivare a una perdita del 4,85% dopo un anno. Questo indebolimento ha avuto un effetto diretto anche sulla loro carbon intensity, ovvero il rapporto tra emissioni di gas serra e fatturato, che in molti casi è peggiorato. Paradossalmente, anche aziende che avevano assunto impegni formali per il clima hanno finito per ridimensionare gli sforzi, scoraggiate dalla perdita di valore in Borsa.

La transizione ecologica richiede un cambio culturale

Questi comportamenti dimostrano che, in assenza di una visione di lungo termine e di un’autentica volontà di trasformazione, molte grandi aziende preferiscono proseguire con il business di sempre. La pressione esercitata dai fondi ESG viene spesso vissuta più come una minaccia che come un’occasione di evoluzione. È in questo contesto che una parte della finanza sostenibile ha deciso di spostare l’attenzione sul dialogo diretto con le imprese, attraverso pratiche come l’engagement e l’azionariato attivo. Si tratta di approcci che puntano a influenzare le decisioni dei vertici aziendali, non solo a punire con il disinvestimento.

Il capitale conta, ma non basta

Spostare capitali verso investimenti più sostenibili è certamente un passo avanti importante. Tuttavia, senza un cambio culturale all’interno delle imprese, orientato realmente verso una transizione ecologica, il rischio è che la finanza sostenibile rimanga solo un meccanismo tecnico. Per cambiare davvero il mondo in cui viviamo, non basta allontanarsi da chi inquina: è necessario anche coinvolgere chi ha il potere di trasformare i modelli di produzione, guidando il cambiamento dall’interno.