Una perdita silenziosa: 30 anni di svalutazione
Uno studio condotto da Itinerari Previdenziali in collaborazione con CIDA mette in luce una verità amara e spesso ignorata: in trent’anni di mancata rivalutazione, i pensionati italiani hanno perso l’equivalente di un anno intero di assegno. E non si parla solo di cifre, ma di una profonda ingiustizia sociale che colpisce soprattutto chi ha contribuito di più al sistema. L’erosione del potere d’acquisto delle pensioni non è un effetto passeggero dell’inflazione, ma il risultato di interventi strutturali, ripetuti nel tempo, che hanno colpito trasversalmente i trattamenti medio-alti, quelli dei pensionati del ceto medio, sempre più penalizzati.
Il peso dell’ultima manovra: fino a 115mila euro in 10 anni
La recente Legge di Bilancio 2024 ha acuito il problema, sfruttando l’ondata inflazionistica del biennio 2023-2024 per ridurre la rivalutazione automatica delle pensioni superiori ai 2.500 euro lordi mensili (meno di 2.000 netti). Secondo i dati presentati nello studio, la perdita economica stimata nei prossimi 10 anni sarà di almeno 13.000 euro per queste fasce. Ma per chi riceve un assegno oltre i 10.000 euro lordi mensili, la perdita può toccare quota 115.000 euro. E tutto questo avviene senza considerare l’effetto cumulativo dei tagli precedenti, che negli ultimi decenni hanno fatto perdere fino al 25% del potere d’acquisto. Un danno che per alcune categorie equivale a quasi 180.000 euro: praticamente uno stipendio annuale svanito nel nulla.
Chi ha dato di più, oggi viene punito
L’ingiustizia appare evidente: sono proprio i pensionati che hanno pagato più tasse e contributi, quelli che vengono sistematicamente penalizzati. Le pensioni medio-alte, spesso frutto di una lunga carriera dirigenziale o professionale, vengono trattate come un “privilegio” da contenere, invece che come quello che sono realmente: salario differito, il risultato concreto di una vita di lavoro e contributi versati.
Una scelta che mina il patto generazionale
Come sottolineato da Stefano Cuzzilla, presidente di CIDA, queste scelte mortificano il merito, spezzano la fiducia nel patto intergenerazionale e mettono a rischio la sostenibilità stessa del sistema. Perché se chi versa oggi non ha certezze su ciò che riceverà domani, la base stessa della previdenza crolla.
Questione di diritto, non solo di conti
Il report solleva anche dubbi di legittimità costituzionale, soprattutto in relazione alle quote di pensione calcolate con il metodo contributivo, che per sua natura dovrebbe garantire la piena rivalutazione degli assegni. La disparità di trattamento tra le diverse categorie di pensionati e l’assenza di criteri chiari e stabili minano non solo l’equità, ma anche la certezza del diritto: il rischio è che il sistema previdenziale italiano perda definitivamente credibilità agli occhi dei contribuenti







